Testo e foto: Filippo Caon

«Ora non voglio fare altro che ascoltare…» (W. Whitman)

 

L’obiettivo che mi sono dato con questo articolo naturalmente non è aggiungere qualcosa di innovativo sull’argomento, ma semplicemente provare ad affiancare ai contributi di questo journal una riflessione sull’ecologia del suono del paesaggio.

Muovendo sassi, liberi e veloci

Se la nostra attenzione è generalmente più rivolta all’inquinamento fisico o visivo infatti, la dimensione sonora tende sempre a passare in secondo piano, se non nella misura in cui qualunque persona dotata di buon senso, dopo aver fatto un giretto tra Sella e Pordoi in pieno agosto, si può rendere conto di come il rumore delle moto condizioni quei luoghi. Ciononostante, ci facciamo sempre poco caso, e i motivi sono due: primo, perché l’udito è tutto sommato sottosviluppato rispetto alla vista, soprattutto se abitiamo in città; secondo, perché i suoni e i rumori sono onnipresenti. Che so, se passeggiamo nei pressi di una funivia ci basterà voltarci dall’altro lato per non vederla più, ma il rumore dei cavi continueremo a sentirlo, motivo per cui dopo un po’ smetteremo di farci caso. Lo sapete bene se abitate vicino a una ferrovia o a un ospedale: dopo un po’ non sentirete più treni, elicotteri e sirene.

Interrotti dal passaggio di un elicottero sulla Val Brenta Alta

Se ci pensate, uno dei caratteri della montagna riconosciuto da chiunque è proprio il silenzio. Quante volte ti sei fermato ad ascoltare il silenzio della montagna? Ma in realtà la cosa è abbastanza curiosa perché il silenzio in montagna non esiste affatto, come non esiste in nessun altro luogo. Il motivo per cui abbiamo quest’impressione è che ci siamo assuefatti a tal punto alle toniche della città, cioè al sottofondo del traffico, che di fronte a delle toniche naturali, se volete più dolci, ci perdiamo in una sensazione di vuoto che identifichiamo come silenzio. Questa mi sembra una prova curiosa di come il paesaggio sonoro, cioè il totale dei suoni prodotti dalla Natura e dall’uomo, influisca sul nostro inconscio collettivo. Chi ha familiarità con questi discorsi sa che sto semplificando, ma è così.

Ho detto «prodotti dalla Natura e dall’uomo» perché un paesaggio sonoro completamente naturale non esiste, tantomeno sulle nostre montagne. Pensate al passaggio di un aereo che rompe il silenzio di una notte in quota: è un evento occasionale ma che interferisce comunque, e anche prepotentemente, nel paesaggio. Quindi il paesaggio sonoro, che sia prevalentemente naturale come in un bosco o artificiale come in una città, resta pur sempre una dimensione culturale, in cui l’uomo cioè svolge un ruolo.

Il silenzio dei Sibillini, qualche minuto dopo un concerto di Vinicio Capossela

A questo punto è necessaria una parentesi, del tutto personale, con la quale forse qualcuno non sarà d’accordo.

Dal mio punto di vista la differenza tra sistema antropocentrico e sistema ecocentrico è dato da uno spostamento del fine. Nel primo caso il fine è l’uomo, e il resto diventa un mezzo, nel secondo caso invece il fine è la Natura. Adesso, avere una visione ecocentrica, che è quella che probabilmente avrete se avete firmato questo manifesto, a mio avviso, non significa pensare che l’uomo possa, in qualche modo fantasioso, rinunciare al proprio ruolo di ente determinante. È vero che Sofocle diceva che la terra si richiude sopra il solco dell’aratro, ma è anche vero che i mezzi di cui disponiamo noi sono leggermente diversi da quelli di un greco del V secolo. Questo per dire che pensare di non incidere su un paesaggio sonoro, e più in generale su un paesaggio, semplicemente fingendo di non esserci non è un modo realistico di affrontare il problema.
Quando eravate bambini nessuno vi ha mai detto che in montagna si deve stare in silenzio? Che poi è una cosa che va anche bene, per carità, ma in qualche modo rappresenta l’inutile tentativo di scomparire: mi spiace tanto ma noi ci siamo, e plasmiamo il mondo.

Aspettando l’arrivo di turisti nei pressi di forcella Pordoi

Ora, bisogna stare attenti a non prendere questa frase come un pretesto per giustificare qualunque cosa, tutt’altro. Dovrebbe servire invece per rendersi conto che proprio in virtù di questo abbiamo il dovere di condizionare virtuosamente sulle dimensioni del paesaggio. In questo caso del paesaggio sonoro.

Piccole Dolomiti, 5000 metri sotto un aereo

Come? Tanto per iniziare potremmo invertire la prospettiva: andare in montagna non tanto per cercare il silenzio ma per ascoltare i suoni, sì della natura, come il canto degli uccelli, ma soprattutto i nostri: i nostri passi, il rumore di un elicottero, rendendoci conto di come interagiscono tra loro. Da questo non dobbiamo aspettarci un risultato diretto o misurabile naturalmente, ma ci servirà per creare una consapevolezza e una percezione di noi che non abbiamo. Se per l’inquinamento visivo abbiamo superato la fase di assimilazione e comprensione del problema passando già alla fase di risoluzione, per quanto riguarda l’inquinamento sonoro siamo ancora un passo indietro. Pensare ad un’ecologia del paesaggio trascurando la dimensione sonora è una lettura parziale del problema. Cambiare prospettiva in questa fase è un buon punto di partenza.

Provando a gridare più forte del Rabies