Tutto è energia e questo è tutto quello che esiste.

Sintonizzati alla frequenza della realtà che desideri

e non potrai fare a meno di ottenere quella realtà.

 

 Non c’è altra via.

 

 Questa non è Filosofia.

Questa è Fisica.

Albert Einstein

 

Chissà cosa devono aver pensato i ricercatori che videro realizzare sotto i loro occhi ciò che per lungo tempo fu solo una splendida – e controversa – teoria della fisica quantistica generata da Einstein (che la definì “un’inquietante azione a distanza”) e poi affinata dal grande John Bell.

Successe questo: presero un elettrone e lo divisero in due parti: una rimase a Roma e l’altra andò a Ginevra, replicando un famoso esperimento detto EPR[1].
Quando quelli di Roma applicavano una rotazione (tecnicamente detta spin) all’elettrone, in Svizzera a oltre 800km di distanza videro il “fratello” eseguire le stesse identiche operazioni[2].

In altre parole, quando uno girava l’altro faceva la stessa cosa, ma la cosa incredibile è che i due non erano minimamente in connessione.
È come se il secondo elettrone “conosca” che cosa stia accadendo al primo indipendentemente dalla distanza che li separa.

Questo voleva dire che l’informazione veniva trasmessa istantaneamente e che quindi non c’era più bisogno di percorrere la distanza tra l’uno e l’altro per trasferire l’informazione stessa.
Non esisteva più lo spazio, non esisteva più il tempo.

Il principio è molto semplice, ovvero che sembra sia possibile stabilire delle relazioni di connessione tra oggetti (in fisica entanglement) a grande distanza tra di loro, senza che ovviamente questi siano in contatto.

Sebbene separati rimangono continuamente in comunicazione, che si parli di pochi chilometri oppure di anni luce – o addirittura di epoche – visto che si parla anche della dimensione tempo.

Disse a tal proposito il premio Nobel per la Fisica Brian Josephson:

“L’universo non è una collezione di oggetti (distinti e separati che si muovono nello spazio), ma una inseparabile rete di modelli di energia vibrante nei quali nessun componente ha realtà indipendente dal tutto.”

In sostanza, vedere “oggetti distinti e separati” (cioè il percepire me osservatore e tu osservato come entità fisiche distinte e separate) è una elaborazione sintetizzata della coppia occhio-cervello.
Ma non è la vera realtà, o essenza, dell’universo.
L’universo così come ce lo fa percepire lo strumento di misura “occhio-cervello” è solo una abnorme semplificazione, schematizzazione.

In realtà tutto è collegato all’interno di un unico campo, nel quale i legami avvengono a velocità infinita e, cioè, in assenza di tempo. In sostanza l’universo è una entità a-temporale. Il tempo è una dimensione nella quale siamo intrappolati noi ed i nostri sensi, ma che, a livello profondo dell’universo, non esiste.

Mi rendo conto possano essere discorsi che fanno venire le vertigini, complessi, ma questo è il punto di contatto perfetto tra la più avanzata frangia della fisica moderna e tutte le discipline olistiche e gli antichi i quali, seppure da un’altra prospettiva, spiegavano i medesimi concetti[3].

Provate ad immaginare queste particelle come se fossero due palline da tennis, poste a grandissima distanza, unite da una sorta di filo invisibile e quando tiro un’estremità una anche l’altra si muove.

Peccato che questo “filo” noi oggi non siamo ancora in grado di vederlo…ma c’è.

E dov’è quindi? Cos’è che ci connette a tutte le cose? A cosa siamo realmente legati e cosa ci influenza?

Ricordiamoci che questa non è una digressione mistica (senza nulla togliere), ma stiamo parlando di fisica e la scienza oggi ci conferma che siamo immersi in una sorta di mare invisibile e indecifrabile nel quale tutto è connesso e tutto è inscindibilmente collegato.

Una roccia, un fiore, il vento che soffia leggero e anche il ruscello che scorre dietro la mia casa; io stesso e tutti gli altri con me siamo parte di un grande, armonico respiro.

Anche fisicamente per intenderci, le galassie nell’universo sono fatte delle stesse tre particelle di cui siamo fatti anche noi: elettroni, quark up e quark down. La differenza tra noi e le galassie sta solo nel modo in cui queste particelle sono organizzate.

Ma qui arriva il bello: osservando le cose da questa prospettiva, apparteniamo al mondo naturale quindi molto più di quello che comunemente crediamo e ne siamo inscindibilmente legati.
Di più ancora, la Natura è stata per millenni la nostra casa e noi siamo tutt’uno con essa.

Quando la Natura ci chiama e noi chiamiamo lei, quando lei si “muove” noi inconsciamente facciamo altrettanto.
E quando lei soffre, noi ne risentiamo.

È forse questo uno dei motivi per cui molti sentono un viscerale desiderio di stare nella Natura?

Probabile.

È innegabile però che il verde ha in generale sugli esseri umani un effetto benefico percepibile ed oggi, grazie anche ai nostri strumenti, questo beneficio è misurabile e quantificabile.

La cosa sorprendente è che questo fenomeno si evidenzia in maniera nitida anche per ciò che mangiamo.
Sembra a tutti gli effetti che il nostro cervello sia in grado di riconoscere un prodotto naturale (che viene dalla terra, organico, coltivato o creato senza particolari interferenze da parte dall’uomo) da un altro prodotto in maniera industriale.

Lo abbiamo dimostrato molto bene in un test oggi divenuto famoso, dove a 18 diversi utenti in modalità blind tasting abbiamo somministrato 3 tipologie diverse di miele e fatto indossare durante la degustazione un Elettro Encefalo Gramma di ultima generazione in grado di leggere le reazioni istintive e incondizionate del loro cervello.
Dei campioni somministrati, solo uno era miele “vero” – delle api per intenderci – mentre gli altri erano prodotti da supermercato che… miele non sono.

Per quanto possa sembrare ridicolo sottolineare “miele che viene dalle api”, ricordiamo che ad oggi circa il 75% dei mieli presenti in GDO non è miele bensì una miscela di melassa, zuccheri e aromatizzanti che lo rendono sensorialmente simile al nettare prodotto dalle api, ma appunto, miele di certo non è. Di questi un miele su due in commercio in Italia proviene dall’estero, in larga parte dalla Cina[4].

Quello che è accaduto durante le degustazioni è stato stupefacente: al termine del test abbiamo chiesto agli utenti se avessero apprezzato qualche differenza e se, tra i campioni di miele, ce ne fosse uno che preferivano, ma nessuno dei partecipanti ha optato in maniera marcata per il miele vero, biologico.

Guardando invece ai dati dell’EEG, è sbalorditivo notare per contro come il cervello di tutti e 18 i tester ha reagito in maniera assolutamente netta e positiva al miele autentico (miele BIO), sintonizzando i loro cervelli su frequenze molto lente (onde Theta), onde per altro tipiche del rilassamento e della meditazione.

È un po’ come se il nostro cervello, molto meglio di noi, sapesse istintivamente distinguere ciò che viene dalla natura da ciò che è prodotto artificialmente dall’uomo e per noi questa è stata una scoperta davvero entusiasmante.
Il miele delle api ha addirittura avuto un effetto rilassante, distensivo, tranquillizzante per il cervello.

Anche questo è parte del nostro intreccio con il pianeta e l’universo intero? Io credo di si.

Abbiamo accumulato negli ultimi 10 anni del nostro lavoro una quantità impressionate di prove, segnali e semplici intuizioni che ci indicano una direzione ben precisa, ovvero che esseri umani e Natura sono una cosa sola.

Dalle foreste non antropizzate del Madagascar fino alla Rift Valley in Kenia, dal deserto della California alle meravigliose dolomiti del nostro arco alpino ogni volta che misuriamo le reazioni neurologiche delle persone in contesti naturali c’è sempre lo stesso medesimo effetto positivo che diventa esponenziale con il prolungarsi della permanenza in ambiente. Il picco di questi benefici (sia a livello fisiologico che cognitivo) lo si può apprezzare dopo circa 3 giorni di immersione totale nella natura, come ben evidenziato dai colleghi della Standford University qualche anno fa in un bellissimo esperimento[5].

Eppure, come specie ci ostiniamo a creare “un nuovo mondo” e vivere uno stile di vita che non è assolutamente fatto per noi (questo ci dicono i dati) e che è sempre più distante dal regno delle cose naturali a cui anche noi apparteniamo.

Il modello del consumismo a tutti costi ha perennemente sostituito la lente attraverso la quale osserviamo la realtà, distorcendo in maniera drammatica la percezione che abbiamo dei nostri bisogni reali così come la percezione del tempo a disposizione.

Accade così, che da qualche parte lungo il nostro cammino abbiamo confuso la comodità con la felicità e la nostra vita è pericolosamente piombata sotto un bombardamento continuo di stimoli ed il nostro cervello – purtroppo – è estremamente ricettivo a tutti gli stimoli esterni e questo è frutto dell’adattamento, della sopravvivenza.

Prendiamo il caso delle città: dal 2010 siamo a tutti gli effetti diventati specie urbana, significa che oltre il 50% degli esseri umani vive in spazi urbani e spesso con accesso ristretto ad aree verdi.
Di più, oggi americani ed europei passano in media il 90% del loro tempo indoor (nella perversa logica casa-lavoro) e del restante 10% la metà viene consumata nel traffico.

Sono numeri terrificanti.

C’è anche un interessante effetto secondario di non poco conto, legato al fatto che il nostro cervello non è abituato a una così alta densità di stimoli e memoria (fermatevi per un istante a riflettere su quante sono le cose che dobbiamo tenere a mente oggi, vi verranno le vertigini), non sappiamo bene come tutto questo lo possa modificare in maniera permanente, ma questo fenomeno è già in atto.
In altre parole, è come se stessimo lentamente plasmando la nostra struttura cerebrale per adattarla al nuovo stile di vita.
Se come abbiamo visto quindi la prima regola fondamentale della vita – per sopravvivere – è l’adattamento, il cervello non può certo sottrarsi e deve rimanere al passo.

Ecco un’altra brutta notizia per noi: l’evoluzione di homo sapiens come specie non ha come primo obiettivo la felicità, bensì la sopravvivenza (ed è ovvio immaginare il perché).

Senso di pericolo, paura, allerta, aggressività sono stati evolutivamente gli istinti primordiali che ci hanno permesso la sopravvivenza, insieme a quelli della fame, della ricerca del cibo e della lotta per conquistarsi il cibo, non certo il piacere, il gusto, l’appagamento, la gioia.
Per prima cosa, perciò, il cervello primitivo ha prodotto meccanismi di difesa che oggi più di un tempo sono difficili da scardinare.

Non a caso in un altro dei nostri studi proprio in Madagascar nel 2017 abbiamo constatato come la foresta non antropizzata di Lokobe (una bellissima riserva naturale a sud-est dell’isola di Nosy-Be), nonostante possa sembrare un luogo ad alto tasso di discomfort, sia un luogo altamente più rilassante per i nostri sensi di una qualsiasi spiaggia (e vi assicuro che le spiagge la sono qualcosa di straordinario), figuratevi di una città.

Sono bastati meno di 60 minuti per “spegnere” i nostri sensi di allerta abituati ed in costante ipereccitazione dallo stress moderno e far subentrare in maniera prepotente sensazioni arcaiche e primitive di coinvolgimento emotivo e serenità perduranti.

Quella è evidentemente la nostra casa, o almeno di certo lo è per i nostri sensi.

Nella nostra società di oggi il distacco forzato dal mondo delle cose reali – vissute in prima persona – a favore di uno scivolamento verso la sua riproduzione digitale pare essere inevitabile e ci sono tutti gli elementi per poterlo credere.

Questo ad esempio è sempre più evidente nei bambini, quelli di oggi rispetto a 2 o 3 generazioni fa stanno progressivamente perdendo la capacità di coordinare e gestire i cosiddetti “movimenti fini” delle dita connessi a molte attività artigianali e manuali con conseguente ipotrofia delle aree cerebrali interessate. Ciò che non viene più utilizzato diventa inutile e a poco a poco ridotto di dimensione fino ad essere definitivamente “scartato” (si parla in alcuni casi di aprassia costruttiva[6]).
Avremo quindi generazioni straordinariamente abili con un qualsiasi touch screeen, ma assolutamente incapaci, goffe e disarticolate nel tentare di infilare un filo da cucire nella cruna di un ago, ma anche ad allestire una sosta con una mano appesi in parete.

Riuscite ad immaginare le conseguenze?

Vediamo di capire meglio cosa accade nel nostro cervello e perché oggi siamo… quello che siamo.

Alla nascita i neuroni di un neonato sono inadeguati e disconnessi, poi nei primi due anni di vita cominciano a connettersi in modo estremamente rapido, mentre recepiscono informazioni sensoriali dal famoso “mare” in cui siamo immersi del quale abbiamo parlato all’inizio di questo articolo.
Nel cervello di un infante si formano in ogni secondo ben due milioni di nuove connessioni o sinapsi.
Entro i due anni d’età un bambino ha oltre centomila miliardi (100.000.000.000.000) di sinapsi, il doppio di quante ne possa avere in età adulta e sono una macchina straordinariamente predisposta ad assorbire informazioni e collegarle tra di loro.
Questo spiega perché paradossalmente è più facile imparare a scendere con la tavola da snowboard a 4 anni anziché a 35.

Quando è molto piccolo quindi l’essere umano ha raggiunto il massimo delle sue capacità ed ha molte più connessioni di quante gliene possano servire.

A questo punto, per un meccanismo del quale non si conoscono ancora bene le motivazioni, il fiorire di nuove connessioni è soppiantato da una strategia di potatura neuronale, man mano che si cresce il 50% delle sinapsi verranno eliminate.

Quali sinapsi restano e quali se ne vanno? Cosa sceglie come “importante” il nostro cervello? Quale criterio adotta?

Quando una sinapsi partecipa con successo a un circuito, si rafforza, secondo l’intramontabile e sempre attuale principio del repetita iuvant; per contro, se non sono utili, le sinapsi s’indeboliscono e sono infine eliminate.

Proprio come accade per i sentieri in un bosco, quelli che non vengono usati, vanno perduti.
In un certo senso, il processo per diventare “chi siamo” è caratterizzato dalla potatura delle possibilità che erano già presenti.
Diventiamo chi siamo non per ciò che cresce nel nostro cervello bensì per quanto è stato eliminato.
Durante tutta la nostra infanzia, l’ambiente in cui viviamo raffina il nostro cervello, intervenendo sulla giungla delle possibilità e riplasmandola in modo che sia conforme al mondo circostante.
I nostri cervelli stabiliscono un minor numero di connessioni, che tuttavia diventano più forti.

Un bambino che cresce e vive lontano dall’ambiente naturale è come se non potesse disporre degli strumenti necessari per poterlo vivere serenamente o addirittura per comprenderlo.
Figuriamoci per poterlo amare.

Se è vero che abbiamo fatto passi da gigante con innovazione e tecnologia, utile su innumerevoli fronti, è altrettanto vero affermare che è potuto accadere solo perché collettivamente gli esseri umani oggi sanno di più di quanto sapessero i membri di un gruppo di Sapiens antico.

Ma, a livello individuale, gli antichi cacciatori-raccoglitori[7] sono stati la gente più avveduta e abile di tutti i tempi, i quali possedevano un cervello – udite udite – con una massa cerebrale più sviluppata della nostra.

In paragone il cervello di cui disponiamo attualmente è un po’ più piccolo e con molte meno aree sviluppate.
Mi spiace darvi questa brutta notizia che so molti di voi faticheranno ad accettare, ma rispetto ai nostri antenati ci stiamo un po’ rincoglionendo.

Pensate solo ai vostri nonni e quante attività manuali sapevano fare ed anche a quanta di questa saggezza era legata alla natura ed ai suoi cicli, a come sapevano ad esempio prevedere con accuratezza l’arrivo di un temporale solo dalla direzione e dalla velocità del vento.

Tutte queste abilità sono presenti in maniera radicata nel nostro genoma, sono solo sopite sotto strati di sonnolente pigrizia post-moderna.
Recuperarle da a noi la stessa strana sensazione di quando sfiliamo le scarpe e camminiamo a piedi nudi sull’erba soffice, d’estate. Quella sensazione ancestrale di un gesto naturale e millenario, piacevole e inebriante. Era dentro di noi, racchiuso chissà dove in fondo alle nostre sinapsi, così come tra i lacci stretti delle scarpe prodotte con il petrolio.

Davanti a queste evidenze, torniamo allora per un attimo al nostro intreccio, al nostro legame primario: è davvero questo il disegno biologico per cui siamo stati progettati, ovvero vivere come in cattività, consapevoli che ci sta modificando in maniera permanente?

Quale può essere il rimedio?

La soluzione è accorciare la distanza e tornare il più possibile a toccare la natura.

Come per intrecciare una qualsiasi trama, c’è bisogno di mani sapienti che facciano danzare i fili in modo armonioso per creare un tessuto soffice e gradevole al tatto.
La maggior parte di noi oggi sottovaluta i benefici di un maggior contatto con la natura, non crede che possa essere motivo di felicità e attribuisce invece quel potere allo shopping, alla TV, ai devices o chissà quale altro artefatto.

La Natura è ovunque, così come l’intreccio.

Non possiamo sottrarci alla chiamata di aiuto perché il suo grido è di fondo anche il nostro e credo che questi mesi di lockdown forzato siano stati per molti la possibilità di poterlo finalmente sentire.

Dobbiamo affrontare sfide ambientali piuttosto dure su questo pianeta.
Il cambiamento climatico è una di queste, ma ce ne sono delle altre: ad esempio la perdita di habitat per moltissime specie per causa dell’uomo, per dirne un’altra. Ma per trovare delle soluzioni servono persone intelligenti, impegnate e che abbiano veramente a cuore la natura.
L’unico modo per formare una generazione di persone che abbia a cuore la natura è permettere che la si possa toccare.

Per fare questo dobbiamo anche cambiare il modo con cui noi stessi percepiamo questa natura e renderla vicina, accessibile: è spesso nell’immaginario collettivo rappresentata da delicate riserve naturali mozzafiato, ma anche – e soprattutto – dall’albero fuori dal nostro portone di casa o dal prato fiorito che vediamo dai finestrini della nostra auto mentre siamo fermi al semaforo andando al lavoro.
È li come ferma, impalpabile, sospesa, ma è pur sempre l’espressione in scala di una grande forza creatrice.

Questo è un percorso che va condiviso con altri, con idee chiare e strumenti adeguati: il primo dei quali è per certo la conoscenza.

Ma oltre alla conoscenza, il vero movente della scoperta deve essere una sana ed insaziabile curiosità e questo articolo vuole essere un tentativo, seppure modesto, di alimentare questa fiamma.

Prendiamo il viaggio, ad esempio: è la più antica forma di manifestazione della curiosità e migliaia di anni di spostamenti dell’uomo sono avvenuti proprio sotto la spinta di questa molla.

Senza questo desiderio il rischio è quello di venire assorbiti dal nostro stile di vita ed iniziare ad accusare fatica, una tremenda sensazione di spossatezza che finirà per immobilizzarci e vedremo vanificati gli sforzi per migliorare questo pianeta e noi con lui.

Se dovesse accadere di rinunciare a capire in cambio delle nostro ovattate comodità (e pigrizie), inizieremo inevitabilmente a chiederci a cosa è servita tutta questa fatica.
Ci renderemo conto di aver sbagliato obiettivo e di aver investito male le nostre energie.
Ci accorgeremo, forse fuori tempo massimo, che le cose importanti erano altrove ed erano proprio quelle che abbiamo sacrificato con troppa leggerezza lungo la strada, illusi di potercene occupare poi.

Ma oggi non c’è nessun “poi”, così come nella teoria quantistica non c’è lo spazio e non esiste il tempo.
Va fatto ora.

Ci portiamo addosso per tutta la vita, racchiuso nel buio della calotta cranica, il sistema più complesso e meraviglioso che si conosca in tutto l’universo: il cervello umano.
Va sfruttato a fondo, aprendo tutti i suoi sensi e le sue capacità.

In un periodo di profonda deriva antiscientifica come quello che stiamo vivendo, abbiamo un bisogno sempre più crescente di radicare il pensiero attraverso dati certi, scoperte, intuizioni scientificamente fondate.

Vale la pena fermarsi, prendere una boccata d’aria e sentirsi parte di questo grande e meraviglioso intreccio che è la vita.
Senza fretta.
Anche perché, a cosa serve correre se sei sulla strada sbagliata?

 

 

Andrea Bariselli, co-founder e Chief Scientist di Thimus Inc, azienda californiana con sede a San Francisco leader mondiale nel settore delle applied neurosciences, con particolare focus nella ricerca del rapporto uomo-natura.

 

NOTE

[1] Nel 1980 Alain Aspect realizzò il primo esperimento EPR (Einstein-Podolski-Rosen) che ha di fatto dimostrato la possibilità di trasmettere istantaneamente informazioni indipendentemente dalla distanza spaziale (esperimento poi ripetuto da Aspect nel 1982).

[2] Due elettroni accoppiati (appartenenti allo stesso atomo) furono separati a Roma presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (I.N.F.N.) e uno dei due venne trasportato (confinato in un contenitore magnetico, con complicatissimi accorgimenti) al C.E.R.N. (Centro Europeo di Ricerche Nucleari) di Ginevra. A Ginevra fu poi cambiato lo spin dell’elettrone e istantaneamente anche lo spin dell’elettrone rimasto a Roma si girò, come atteso in base al principio di esclusione di Pauli.
Einstein, pur avendo teorizzato questo esperimento, non aveva previsto però che il cambiamento dello spin potesse avvenire a distanza e istantaneamente.

[3] Su questo tema bellissimo è il celebre libro Il Tao della fisica (1975), dove il fisico Fritjof Capra svolge un’analisi delle analogie tra le teorie relativistiche e quantistiche della fisica moderna, e le filosofie religiose orientali, tra cui l’induismo, il Buddhismo Mahāyāna, e in particolare il taoismo e lo zen.

[4] Coldiretti, su dati istat

[5] Atchley RA, Strayer DL, Atchley P (2012) Creativity in the Wild: Improving Creative Reasoning through Immersion in Natural Settings. PLoS ONE 7(12): e51474

[6] Il soggetto affetto da aprassia costruttiva cessa di essere in grado di riprodurre ed elaborare strutture bi e tridimensionali. In altre parole, si dimostra incapace di costruire, intendendo con questo termine l’incapacità di disporre nello spazio, in modo corretto, le diverse parti che compongono un oggetto.

[7] Con cacciatori-raccoglitori si indicano quelle popolazioni il cui sistema di alimentazione si basa sulla caccia e sulla raccolta. Queste società non praticano alcuna forma di agricoltura o allevamento, ma fanno leva unicamente sull’acquisizione e il prelievo di cibo dalla natura selvatica.

Il sistema di “caccia e raccolta” fu l’unica forma di sostentamento tra gli uomini del Paleolitico. In virtù del processo di domesticazione delle piante e degli animali, venne soppiantata, con la rivoluzione neolitica, dall’agricoltura e dall’allevamento. Tuttavia non tutte le società compirono questo passo e comunque non tutte allo stesso momento: portava infatti benefici ma anche svantaggi e non era adatto o conveniente a tutti i territori.