Testo di Andrea Benesso

È il primo giorno di primavera e siamo chiusi in casa. Provo meraviglia di fronte alla città deserta, al cielo perfetto, al silenzio, accorgendomi di quanto poco tempo sia bastato per spazzare via tutto quello che c’era, inclusa la superficialità con cui lo davamo per scontato. Mi sento passeggero e superfluo: saperlo mi spaventa e mi fa al contempo sentire leggero, di quella leggerezza che è anche figlia dell’impotenza. Però, come padre, oggi più di ieri, non posso non provare ad immaginare un domani, possibilmente diverso dalla catastrofe zombie.

Saremo più poveri e si spera più consapevoli. Ma si può immaginare un mondo in cui più poveri non voglia necessariamente dire più infelici e più esposti al dolore, alla malattia e persino alla fame? Il liberismo e l’economia del Dopoguerra hanno portato in Europa il benessere e l’abbondanza, in tutto il mondo hanno diminuito la fame, la mortalità infantile, l’analfabetismo e alzato di molto la vita media. In Europa non ci spariamo da quasi 80 anni, tranne la fratricida guerra dei Balcani, e mi sa che è una specie di record, per noi tutt’altro che pacifici figli dell’impero romano.

Tutto questo ha però avuto un prezzo, come sempre. In termini ambientali, se vogliamo essere pratici (anche se l’epoca della rivoluzione industriale e il primo Dopoguerra erano ben peggio), e di omologazione culturale, se vogliamo essere sottili. Il capitalismo, per funzionare, ci chiede di essere consumatori, e il consumatore è un modello standard: chi non vi rientra, in qualche modo, è una persona da curare, educare, condizionare, persino incarcerare. Da Marcuse a Fischer, fino a Foucault, per citarne alcuni — ma già forse prima qualcuno lo aveva intuito – molti grandi pensatori hanno capito che l’omologazione e la perdita di libertà erano il prezzo da pagare per far parte di un sistema che ti garantisce la pancia piena, di non morire per un’infezione e di non vedere i tuoi figli andare in guerra. E il prezzo lo abbiamo pagato. Abbiamo costruito e accettato una società che ha sostituito alla violenza delle armi la guerra dei mercati. Abbiamo accettato una violenza culturale, l’imposizione di un pensiero unico che Pasolini aveva intuito con dolore e chiamato fascismo, riconoscendolo ben più efficace di quello del ventennio. Fateci caso: le campagne elettorali parlano da 30 anni solo di economia, di tasse, di denaro; nessuno elabora più un’idea di società, nessuno si accorge che l’individualismo della TV e delle vacanze ha fatto scomparire tutte le forme di collettività locale, che non esiste più una rete sociale al di fuori della famiglia, quando va bene. Le scuole hanno rinunciato a costruire pensatori e si sono dedicate a forgiare lavoratori. Mark Fischer dice che nulla di nuovo, parlando della capacità del capitalismo di assorbire il dissenso, potrà più accadere; si sbagliava, è arrivato il virus, e ora ci ritroviamo a chiederci cosa sarà domani, con la sensazione ovattata di essere in un angosciante dormiveglia. Il punto è se il capitalismo, come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, reggerà l’urto di questa malattia. Non fosse così, spetta a noi irregimentati, pensatori da poco, disabituati all’autonomia, immaginare una nuova società.

Dire addio al mondo che conoscevamo, significherà tornare ad essere poveri e fragili o esiste un modello alternativo? Il concetto di descrescita felice, come finito a sproposito sulla bocca di molti, mi ha sempre fatto sorridere: le pensioni, la sanità, la sicurezza sono pagate con un sistema finanziario che non prevede decrescita, ma tagli. Rinunciare alla finanza significherebbe non avere stipendi per il settore pubblico, non avere pensioni, scuole, ospedali, vedere le persone fare la fila per comprare il pane, come accadde, per parlare di storia recente, dopo la caduta del muro in Russia o in Argentina, paese che nel giro di pochi anni è passato dall’essere la settima economia mondiale ad avere le famiglie alla fame. Questa situazione è una realtà ineluttabile o è semplicemente una mancanza di immaginazione, quella di cui parlava Marcuse, come capacità di rendere reali le utopie e di superare il materialismo/consumismo come unico parametro per valutare la politica?

Sono queste solo parole astratte, scritte da una persona che per coltivare l’orto deve guardare un tutorial su youtube, ma da qui dobbiamo ripartire: da una discussione sulle idee che arrivi agli orti, ai quartieri, alla gestione delle risorse, al rapporto con l’ambiente, alla fine del consumo e alla collettivizzazione dei bisogni, ma senza isolarsi, anzi aprendosi sempre più ad una dimensione ultra nazionale. Le idee di Latouche, padre del concetto di decrescita felice, ben diverso dal pauperismo con cui viene confuso, sono uno spunto di riflessione che oggi diventa urgente. In questo momento parlare di argomenti che possano per certi aspetti rimettere in discussione tutto, persino la nostra idea di proprietà privata, per poter immaginare, semplicemente immaginare, può addirittura sembrare doveroso, al di là delle ideologie e dei partiti, che oggi paiono solo un triste teatrino senza senso, macerie di un mondo passato.