Testo di Leonardo PanizzaFoto di Edoardo Piobbici

 

Immaginate un’enorme colata fangosa formata da terreni argillosi, un movimento durato migliaia di anni che trasporta massi grandi come montagne partiti dall’area di Genova e stabilizzatisi nel punto di incontro tra Toscana, Marche ed Emilia Romagna. Immaginate questi enormi massi inglobati nel fango durante una fase tettonica tormentata che scivolano come su un gigantesco nastro trasportatore fermarsi gradualmente. Poi migliaia di anni di pioggia, vento, agenti atmosferici che sciolgono e modellano la parte più morbida, facendo affiorare a poco a poco le rocce di materiale più duro inglobati nell’argilla. Questa è l’origine dei sassi del Montefeltro.

Immaginate ora diversi ragazzi, che mossi da forze ugualmente potenti, scivolano, prima uno, poi l’altro dal Trentino, dal Veneto, altri dalla più vicina Rimini, altri ancora dalla più lontana Marsiglia. Si trovano per gioco, alcuni si conoscono appena, altri condividono esperienze di vita e di lavoro da diversi anni. Piano piano vengono trasportati verso lo stesso territorio, proprio ai piedi di uno dei più caratteristici sassi del Montefeltro: il Sasso Simone. Questa è l’origine del Rifugio Culturale la Casa del Re.

Quando mi sono messo in viaggio verso La casa del Re avevo una domanda chiara in mente: cosa rende questo Rifugio un esempio positivo di convivenza con l’ambiente che lo circonda? Volevo scoprire l’ingrediente segreto. Nelle mie esperienze sulle montagne di casa (vivo a Trento) ho avuto spesso la necessità di appoggiarmi ai rifugi. Inizialmente faceva parte dell’esperienza, conoscevo i gestori, i commensali, raccoglievo informazioni sull’ascesa che avrei intrapreso il giorno successivo, scambiavo suggestioni e opinioni.

Negli ultimi anni il panorama è però cambiato drasticamente. I rifugi sono diventati luoghi troppo spesso affollati in cui è difficile comunicare, in cui il caos è tale per cui non è possibile avere un momento di confronto con chi abita il luogo per avere informazioni tecniche o più semplicemente per condividere un’emozione. In montagna spesso fare il rifugista è diventato semplice business, stressante, movimentato, non c’è tempo per fermarsi. Le richieste della clientela sono sempre più orientate al comfort e alla fruizione rapida, così i rifugi delle dolomiti sono diventati ristoranti d’alta quota, attirando spesso escursionisti occasionali mordi e fuggi in un circolo vizioso che porta, chi ha reali necessità di sapere se la via è percorribile o in che modo le condizioni del manto nevoso sono state influenzate dall’andamento delle temperature negli ultimi giorni, ad abbandonarli.

Sempre più spesso, per vivere un’esperienza più lenta e autentica, evito accuratamente i rifugi, li frequento come bivacchi invernali, ricercandone più la chiusura che l’apertura. Così mi è capitato di fare l’ascesa al Gran Zebrù o all’Ortles dormendo in bivacco mentre sempre più spesso preferisco mete alpinistiche meno famose perché l’appoggio al rifugio, a volte necessario, significherebbe rendere l’esperienza meno esplorativa e più preconfezionata.

Mi sono spesso chiesto se altri sentono quest’esigenza di esplorazione più autonoma e anche lontano dalle cerchie dei miei amici risulta sempre più spesso una necessità condivisa. C’è poi la difficoltà di parlare di queste impressioni perché il rifugio rimane comunque un luogo intoccabile, perché ha ancora l’aurea autorevole delle origini che lo rende quasi un luogo sacro, non per nulla spesso anche oggi è meta di pellegrinaggio. È tuttavia innegabile il lavoro che ci vuole per tenere in piedi questi luoghi spesso remoti, per cui viene naturale tirare in ballo le necessità di gestione economica e marketing accantonando quelle più impalpabili di sostenibilità e relazione. Conoscendo Marco, uno dei ragazzi che ha preso in gestione il Rifugio Culturale La casa del Re, ho deciso di raggiungerlo per capire se era possibile trovare un rifugio che prendesse in considerazione tutti gli elementi. Così, rientrando da una vacanza in Corsica sono scivolato, attratto anche io da forze misteriose, sugli appennini. Questa è l’origine del mio incontro con la Casa del Re.

Arrivo alla Casa del Re la sera, dopo una strada tortuosa che ci conduce fino al parcheggio. Già da lontano si intravedono delle luci fioche tra gli alberi ed una volta arrivati lì l’edificio in pietra, recentemente ristrutturato, si mostra in tutta la sua bellezza. Mi siedo e chiedo se è possibile avere una birra. Altri signori stanno sorseggiando qualcosa e da subito incominciamo a chiacchierare. Mi dicono che il mio amico e gli altri gestori sono impegnati in una passeggiata notturna per trovare un antico sentiero alternativo che conduce al Sasso Simone, stanno organizzando l’attività che avrà luogo nei giorni successivi, un trekking di due giorni alla scoperta della zona. L’atmosfera è distesa e amichevole. I ragazzi tornano e insieme a Marco (che già conosco) ci sono Roberto e Irene. Imbastiscono una cena rapida e si mettono a mangiare. Insieme a loro sono andati alcuni ragazzi del paese e alcuni ospiti. Tra loro c’è Edoardo, giovane fotografo che è in tenda da alcuni giorni con la ragazza. Gli chiedo se ha voglia di aiutarmi con qualche scatto nel tentativo di descrivere la Casa del Re e accetta subito volentieri.

Il giorno dopo ci svegliamo e facciamo colazione con delle crostatine prodotte da un fornaio locale che utilizza un forno a legno per la cottura. Il fornaio, ci raccontano, è l’unico a toccare la pasta madre da anni perché i batteri del lievito si sono sviluppati simbioticamente col suo tocco magico. Marco e Roberto mi raccontano di come la zona fosse un tempo un luogo di gran passaggio per chi andava a Roma. Piero della Francesca e altri artisti frequentavano quelle zone per rifornirsi di colori, specialmente per reperire il blu vegetale ricavato dal guado (Isatis tinctoria) una pianta che veniva coltivata proprio nei pressi del Rifugio.

Poi Marco mi fa fare un giro della grande casa di pietra, mostrandomi le stalle, le stanze. Si sofferma a mostrarmi come sono riusciti a recuperare l’acqua da una antica sorgente che accumula 1 litro al minuto. Hanno anche un pozzo artesiano ma ci tengono a far capire agli ospiti quanto sia preziosa l’acqua. Agli ospiti del campeggio, per esempio, viene data una tanica da 10 lt. Una volta finita si può riempire, ma viene fornita una misura limitata invece che un rubinetto infinito, mettendo in evidenza la fatica con cui l’acqua è stata reperita ed evitando di sprecarla con troppa facilità.

La cosa che più colpisce è il fermento e insieme la tranquillità del luogo, immerso nella cerreta più grande d’Europa si affaccia su un paesaggio collinare, la Massa Trabaria. Già nel medioevo era un luogo tutelato perché il legno di cerro era riservato alla produzione di travi, spesso trasportate fino a Roma sul Tevere. Successivamente, nel 1566 i Medici avevano dato il via ad una città utopica, La Città del Sole. Iniziarono così la costruzione di quella che sarebbe diventata la città fortezza più ardita di sempre. A 1200 metri di quota, circondata da pareti naturali, la fortezza ospitò per alcuni decenni una città, ma dopo la costruzione di edifici e bacini per l’acqua le persone iniziarono ad abbandonarla per un inasprimento delle condizioni climatiche. In pochi anni la città sulla sommità del Sasso Simone fu abbandonata ma ancora oggi nel bosco si scorgono archi e strade che ricordano il folle progetto di città ideale che il giovane Cosimo de Medici aveva messo in piedi.

Proprio come nell’antica città ideale al Rifugio culturale ogni giorno si succedono attività, dall’astrofilo che guida all’osservazione del cielo ai laboratori settimanali per bambini, dai piccoli concerti all’aperto alle cene di pesce per più di 60 persone. La cosa fondamentale, al di là della fitta programmazione, è che ognuno ha la possibilità di esprimersi come meglio crede; qualche ospite ha aiutato nella costruzione di candele in cera, altri hanno prestato gli sgabelli, oggi io provo a descriverlo, aiutato dalle fotografie di un ospite che casualmente si trovava lì in vacanza.

Il paese più vicino, Sestino, ha accolto di buon grado la riapertura del Rifugio dopo diversi anni di inattività. Partecipa principalmente portando i bambini ai laboratori mattutini; le mamme arrivano, chiacchierano, si incontrano. Non mancano anche incursioni di paesani che passano per mangiare un tagliere o semplicemente per un bicchiere di vino.

I ragazzi ci tengono a instaurare un dialogo costruttivo con il luogo, dedicando gran parte del tempo alle relazioni e alla comunicazione di quelli che sono i loro principi. Per evitare che il progetto sia troppo utopico come l’antica Città del Sole però, sono disposti a scendere a compromessi. Quando qualcuno, dopo l’inaugurazione, ha portato a sostegno della causa un bancale di acqua in bottiglie di plastica hanno accettato di buon grado il gesto, anche se si stanno prodigando per costruire un bacino di raccolta dell’acqua piovana per limitare l’utilizzo di acqua imballata nel più breve tempo possibile. Lavorando con grande attenzione stanno abituando gli ospiti a diverse questioni che sperano possano portare nelle proprie abitazioni: ad avere l’acqua limitata e ad avere una scelta di pasti di qualità ma non infinita, a vedere la riserva naturale come un’opportunità e non come un limite, ad utilizzare prodotti locali.

Il limite risulta forse essere l’ingrediente segreto che cercavo. Il senso di ciò che ha sempre significato per me il Rifugio alpino sta infatti nell’impossibilità di avere tutti i confort. Scontrarsi con dei limiti (quello dell’acqua e del cibo) fa si che il focus dell’incontro sia su altre fondamentali forme di alimentazione. Così al Rifugio Culturale La Casa del Re si assapora ancora la densità delle parole, che hanno un sapore autentico, perché in grado di raccontare un luogo fino a poco prima sconosciuto ed ora già intimo, perché le narrazioni sapienti dei rifugisti sanno rapire, suggestionare, facendo scoprire il luogo in tutta la sua bellezza, che non si presta a una fruizione rapida e immediata, ma ad un investimento reciproco, nato dalla fatica e dall’impegno.

Se prima mi chiedevo quale fosse l’ingrediente segreto del Rifugio Culturale ecco che le parole sul sito aiutano a trovarlo: Fare ospitalità diventa dunque l’offerta di un modello di esperire lento, consapevole, legato al territorio e alle sue realtà socioculturali, dove il fruitore ha la possibilità di arricchirsi, condividendo saperi ed interessi e -grazie anche agli strumenti che gli vengono offerti- avere occasione di conoscere ed incontrare gli altri ospiti e il contesto che lo circonda. Il rifugista mette a disposizione cibo, vino, escursioni, ma dona ad ognuno la possibilità di sentirsi esploratore del luogo (esterno e interno) grazie alle capacità che lui stesso porta con sé. Ecco che il rifugio diventa un laboratorio maieutico in cui l’acquisizione di conoscenze è reciproca e lo scambio è autentico. In questo laboratorio risulta necessario che chi arrivi al rifugio abbia voglia di farsi rapire, disposto all’ascolto e alla scoperta, abbandonando per un istante le richieste di standard cittadini.

L’origine del nome del Sasso Simone è dovuto probabilmente alla presenza di antichi culti di Semone Sanco, protettore della legge e dell’ospitalità e dalla presenza di un eremita di nome Simone che aveva deciso di ritirarsi in quelle zone per meditare e stare a contatto con la natura che circonda il luogo. Fin dall’antichità il Rifugio è stato centro di presenze che hanno stimolato e sviluppato il territorio, in un dialogo fecondo con la natura che ora fa parte della riserva protetta.

Oggi il Sasso Simone accoglie un nuovo gruppo di persone con una visione chiara e precisa che va in direzione di un’ospitalità distante da logiche di mercato che mette al centro la volontà di arricchire il territorio invece che sfruttarlo. La casa del Re sembra additare ingenuamente un modello di accoglienza obsoleto e dannoso per il territorio urlando che il mondo dei rifugi deve cambiare, recuperando la capacità di intessere relazioni tipica del passato per mescolarla con le possibilità comunicative di oggi, recuperando la lentezza dell’antichità utilizzando la tecnologia che oggi permette di espandere la voce in modo rapido e diffuso, mostrando che è possibile essere autentici senza rincorrere un turismo di massa che può diventare dannoso per il territorio. Il progetto è appena nato, ma forse c’è bisogno proprio della voce di un progetto nuovo per dire che l’aurea di autorevolezza che riveste molti rifugi rischia di dissolversi se non cambieranno presto direzione. Il rifugio culturale ci dice tutto questo e, come un bambino, urla senza alcun pudore che il Re è nudo.

I ragazzi del rifugio del re sono Irene, Roberto, Marco, Laura, Alice

Per informazioni

La Casa del Re

sito web  instagram  facebook

Le attività sono realizzate in collaborazione con

http://chiocciolalacasadelnomade.it

https://www.musss.it

Il Parco Simone

http://www.parcosimone.it/natura-storia/

La Città del Sole

http://www.comune.carpegna.pu.it/vivere-carpegna/conoscere-carpegna/il-sasso-simone/la- citta-del-sole/

+39 350 177 7178

info@rifugioculturalecasadelre.it